Parco Archeologico Religioso CELio

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Una rivisitazione dell’idioritmia - Premesse teologico-patristiche





Incontri celimontani 

Anno 2016-2017

Una rivisitazione dell’idioritmia
(19 gennaio 2017)
G.I.Gargano
Premesse teologico-patristiche
Il clima ecumenico, o comunque di rivalutazione serena dell’ethos orientale (ortodosso), potrebbe costituire oggi un’occasione opportuna perché i camaldolesi contemporanei, in questi inizi del terzo millennio cristiano, riprendano in mano alcuni elementi delle loro origini, che mi sono permesso di chiamare valori dell’idioritmia.
Per capire però di cosa in realtà si tratti occorre naturalmente conoscere in modo più approfondito quell’ethos orientale, che stava diventando un’occasione straordinaria proposta alla riflessione di tutti soprattutto nella cultura russa del diciannovesimo secolo ma che fu interrotta, purtroppo sul nascere, a causa delle tragedie del secolo ventesimo che segnarono così profondamente, e in parte la segnano tuttora, la grande eredità cristiana che viene dall’Oriente. 
Questa mia riflessione sarà perciò un piccolo e semplice tentativo di sollecitare il recupero di quei valori che erano ancora comuni ai tempi di Romualdo, fondatore di Camaldoli, prima che essi divenissero conflittuali tra Oriente e Occidente, ma che potrebbero diventare utili oggi per costruire insieme un’armonia possibile nel rispetto delle reciproche diversità.
Osservo anzitutto che all’orizzonte monastico richiamato da personalità antiche come quella eccezionale di Antonio il Grande di Alessandria si aggiunse ben presto in Oriente l’orizzonte nuovo dovuto al chiarimento provocato dal modello trinitario a proposito della visione di Dio che, andando oltre il pensiero più strettamente cristologico di Atanasio, si sviluppò soprattutto sull’orizzonte del pensiero trinitario che, a partire dai Padri Cappadoci, divenne determinante per tutta la riflessione teologica della Grande Chiesa d’Oriente e d’Occidente.
Dio uni-trino, contemplato nell’unità della sua essenza (ousia) e nella trinità delle sue persone (ipostaseis), divenne assai presto tessera per eccellenza della identità cristiana; per cui la realtà dell’Hagìa Triada/Sancta Trinitas fu modello determinante di riferimento per ogni modo di essere Chiesa e di vivere secondo il Vangelo.
Fu così che il mistero trinitario permeò di sé non soltanto le manifestazioni liturgiche, e le strutture giuridiche, ad ogni livello, delle rispettive comunità, ma anche l’esperienza personale della preghiera e della fede, e conseguente elaborazione dogmatica, toccando l’apice nel famoso concetto di perichoresis di San Giovanni Damasceno nel settimo secolo.
In questo contesto, che poi diverrà definitivo anche se segnato profondamente dalla sensibilità monarchiana nella tradizione occidentale, divenne molto importante, nella tradizione orientale, il modo di essere koinonia/communio,  che supponeva la cura particolare di essere ciascuno spazio di manifestazione per l’altro, in una sorta di kenosis perseguita da tutti in ogni tipo di comunità (famiglia, comunità ecclesiale o monastica) in modo che tutto fosse in comune nel rispetto della distinzione delle persone rigorosamente eguali tra loro, senza nulla togliere alla taxis che riconosceva nel Padre la <fons et origo> (pegē kai aitia in greco) della divinità.
Scriveva Giovanni Damasceno:
“Il rimanere e il risiedere l’una nell’altra delle tre Persone significa che esse sono inseparabili e non vanno staccate e hanno tra loro una compenetrazione senza mescolanza, non in modo che esse si fondino o si mescolino ma in modo che esse si congiungano. Il Figlio è cioè nel Padre e nello Spirito; e lo Spirito nel Padre e nel Figlio; e il Padre nel Figlio e nello Spirito; senza che abbia luogo una fusione o una mescolanza o una confusione. Uno e identico è il movimento, poiché lo slancio e il movimento delle tre persone è unico; cosa che non si può notare nella natura creata”[1].
Da qui la possibilità di declinare la misericordia in divinis come un continuo donarsi e riceversi nella realtà di una intimità completa e totale e tuttavia infinitamente rispettosa della identità di ciascuno.
Ma da qui anche la necessità di vivere l’esperienza della misericordia in humanis in modo tale da fugare non solo ogni subordinazionismo, ma anche ogni tentazione paternalista, e ogni altro tipo di mancanza di rispetto dell’identità e della dignità dell’altro, nei confronti del quale si manifesta invece il massimo della generosità e dell’accoglienza. L’altro infatti non potrebbe essere considerato mai né come suddito né come superiore, perché tutto sta o cade sul corretto riferimento al mistero trinitario in cui i tre sono perfettamente uguali ma in continuo ascolto (hypakoē), e quindi obbedienza non subordinazione (hypotagē), in rispettosa attenzione e relazione reciproca, ma non senza un ordine (taxis) ben preciso tra loro.
Contemplando il mistero trinitario ci si accorge infatti che nel momento stesso in cui uno si dà con la massima generosità all’altro, l’altro si pone, e viene riconosciuto, come distinto e simultaneamente uguale a te stesso senza confusione e senza separazione, ma nel simultaneo rispetto dell’<ordo>/<taxis> che pone al primo posto il Padre, al secondo il Figlio e al terzo lo Spirito Santo.
In un simile contesto teologico si è consapevoli perciò che non c’è alcuna possibilità di vivere un’autentica e ordinata misericordia in terra senza un confronto continuo con l’eterna misericordia contemplata e ricevuta dal cielo.
Da cui la convinzione comune della caritas ordinata come indispensabile conseguenza e verifica dell’autentica caritas. E questo dando per scontato che la perfecta caritas si potrà sperimentare unicamente in cielo.
Io sono convinto che, appunto per fare un po’ di chiarezza su argomenti così profondi e controversi, potrebbe essere opportuno rivisitare allora, con maggiore simpatia e comprensione reciproca, ciò che mi sono permesso di sintetizzare con il vocabolo idioritmia.
Insisto però nel dire che si tratta di parlarne da una prospettiva che non si limiti soltanto all’ovvio rischio di finire nel soggettivismo individualista, ma che tenti piuttosto di porre l’intera problematica all’interno di ciò che i nostri fratelli orientali intendono quando parlano di oikonomia.  
Infatti ogni volta che essi sono sollecitati a spiegare a noi occidentali il loro ethos, soprattutto con riferimento a ciò che noi attribuiamo all’ambito della cosiddetta teologia morale legata al Diritto e alla coerenza con la confessione cattolica della nostra fede, non mancano mai di sintetizzare il tutto nell’espressione kat’oikonomian/secondo economia.
Qualche teologo orientale ortodosso contemporaneo ha sottolineato che proprio di questo si tratta quando si utilizza la formula kat’oikonomian nell’esercizio pastorale propriamente detto quale che sia la situazione alla quale si vorrebbe dare una risposta in obbedienza cristiana a qualunque tipo di canone ricevuto e proclamato dalla Chiesa come norma di comportamento.
In realtà, come documenta J.H. Erickson[2], “il confine tra flessibilità legittima e trasgressione illegittima dei canoni, per esempio, non è mai stato definito chiaramente. La storia della Chiesa bizantina è costellata dalle dispute tra i sostenitori dell’oikonomia e quelli dell’akribeia, soprattutto per questioni relative, per esempio, ai nuovi matrimoni, all’accettazione del clero ordinato irregolarmente etc… nelle relazioni tra l’Oriente greco e l’Occidente latino”.
L’amico don Basilio Petrà, sacerdote cattolico della diocesi di Prato, ma professore di teologia morale ortodossa in varie facoltà teologiche, ha scritto recentemente un bel libro[3] che mi ha aiutato moltissimo ad approfondire ciò che avevo appreso dalla mia frequentazione dei teologi greci ortodossi, quando ero studente all’Università di Atene, e che adesso tento di sintetizzare per voi che mi ascoltate o mi leggete.
Petrà ricorda che la nozione di economia nasce in ambito greco e non casualmente: il termine infatti è greco e indica originariamente l’amministrazione della casa. Progressivamente esso assume nella cultura greca un ampio spettro di usi: dall’uso teorico – dove indica una disposizione artificiosa del discorso per raggiungere un determinato scopo – a quello filosofico, da quello aristotelico a quello stoico, dove descrive il governo provvidenziale del cosmo. Sono queste profonde radici greche che: da una parte rendono l’oikonomia particolarmente presente nella prassi bizantina; dall’altra portano i Padri greci e la Chiesa greca all’utilizzazione ampia del linguaggio oikonomico tanto nella descrizione del rapporto generale tra Dio e il mondo (provvidenza - pronoia, oikonomia salutis), quanto nell’indicazione del governo episcopale della comunità e del servizio pastorale propriamente detto e, in particolare, nell’amministrare il sacramento della penitenza[4].
Si possono rintracciare le origini di questo atteggiamento in epoca patristica con significative testimonianze dei Padri cristiani di lingua greca.
Per esempio:
San Cirillo di Alessandria (370/380-444) nella sua Lettera 46 Sulla necessità di trascurare qualcosa dell’acribeia, per un qualche risultato più grande[5] scriveva per esempio: “Come i marinai quando si avvicina la tempesta ed è a rischio la nave, inquieti svuotano alcune cose per salvare il resto, così anche noi, quando non è possibile che sia conservata una grande acribeia, trascuriamo alcune cose per non perdere il tutto”.
San Giovanni Crisostomo (+ 407), rivolgendosi direttamente ai curatori di anime scriveva a sua volta: La penitenza non deve essere proporzionata solo alla gravità del peccato, ma deve considerare con attenzione anche la concreta libertà di scegliere (proairesis) di coloro che peccano”[6].
Anastasio Sinaita (640-700) definiva l’oikonomia della Chiesa “una volontaria grande condiscendenza (sygkatabasis) compiuta per la salvezza di alcuni”[7].
Nicola di Costantinopoli (IX secolo) dichiarava a sua volta che l’oikonomia è “imitazione della divina philanthropia, che strappa dalla bocca della bestia, che ruggisce contro di noi, colui che sta per essere inghiottito da quella bocca rovinosa[8].
Citando in nota Mons. Harakas – prelato ortodosso americano contemporaneo molto autorevole – Basilio Petrà può infine chiarire che: “La pratica dell’oikonomia rispetta la legge e i comandamenti, ma permette una certa flessibilità di applicazione senza abrogare la legge o costituire precedenti…Essa infatti significa permettere un’eccezione a una regola la cui stretta applicazione (acribeia) condurrebbe a conseguenze indesiderabili da un punto di vista cristiano, e questo senza tuttavia costituire mai un precedente”[9].
Lo stesso Petrà precisa poi che: “L’oikonomia non è rigidamente regolata e, da questo punto di vista, non è comparabile con l’attuale prassi della dispensatio latina che è invece sempre ben regolata” dai canoni del Diritto Canonico[10].
Citando due famosi teologi greci ortodossi contemporanei, Petrà spiega poi che in Oriente: “Non esiste alcun canone per l’applicazione dell’oikonomia. Il modo della sua applicazione potrebbe essere spiegato solo con tautologie, come quando si dice, per esempio, che l’oikonomia è oikonomizzata secondo oikonomia (<katà oikonomian>).
Questa sua indeterminatezza rivela sia la forza dell’oikonomia sia il rischio di un suo abuso… Infatti l’oikonomia è soprattutto vissuta e applicata tenendo conto di ogni singolo caso, esprimendo così simultaneamente: philanthropia, sygkatabasis ed eleutheria tou pneumatos (che si traducono come attenzione verso l’uomo, accondiscendenza, libertà dello Spirito)”[11].
Basilio Petrà chiarisce ulteriormente, con una citazione indiretta di Fozio (IX secolo), (Biblioteca 227: PG 103, 953) presa dal teologo greco ortodosso contemporaneo G.I. Mantzaridis, che “L’oikonomia non può essere applicata a scapito della fede, alterando o deformando la fede stessa”[12].
Infatti Eulogio di Alessandria (+607/608), stabiliva che: “la ragione della oikonomia è usata correttamente solo quando il dogma della pietà non è intaccato in nulla. Dunque l’oikonomia, che deve riguardare sempre cose esterne al dogma, trova di fatto la sua legittimità a condizione che il dogma stesso rimanga integro e non manipolato”[13].
Con riferimento a tutto questo le Chiese Cristiane Orientali preferiscono esprimersi perciò abitualmente individuando le realtà ecclesiali con termini come profezia, simbolo, figura, immagine/icona, sia che si tratti di comunità ecclesiali sia che si tratti di comunità monastiche, aprendole con simpatia a ciò che si può legittimamente chiamare idioritmia, restando fedeli al comune impegno a nulla, assolutamente nulla, anteporre all’amore di Cristo.
La mia ipotesi è che a qualcosa di simile si riferisse anche Bruno di Querfurt (secc. X-XI) quando metteva in bocca all’imperatore Ottone III, la famosa proposta fatta ai discepoli di Romualdo (i futuri camaldolesi) dei tria bona quaerentibus viam Domini che Bruno sintetizzava nelle proposte fatte dall’Imperatore al maestro Romualdo; proposte che avrebbero garantito:
Noviter venientibus de saeculo desiderabile coenobium; maturis vero et Deum vivum sitientibus aurea solitudo; cuientibus dissolvi et esse cum Christo evangelium paganorum”.
E cioè: a chi ha recentemente rinunziato a vivere secondo il mondo il preferibile cenobio; ai maturi che hanno sete solo di Dio l’aurea solitudine; infine a coloro che hanno il desiderio di sciogliersi ed essere con Cristo l’evangelizzazione dei pagani[14].

Questa è stata la motivazione originaria che ci ha portati a dedicare un’intera serie di Incontri Celimontani 2016-2017 a riflettere su L’idioritmia e la tradizione monastica camaldolese seguendo il programma che è a disposizione di tutti.

Motivazioni aggiunte alla nostra scelta

Mentre nelle nostre case romane discutevamo su questa scelta, papa Francesco ha indetto un anno santo della Misericordia, invitandoci tutti a proseguire nella riflessione sul tema della Misericordia cristiana con la pubblicazione dell’Esortazione Apostolica, che faceva seguito alle due sessioni del Sinodo dei vescovi sulla Famiglia.
Questa circostanza ci è sembrata provvidenziale perché le indicazioni offerte da Papa Francesco nella sua Amoris Laetitia, che stanno influenzando moltissimo la comune prassi pastorale dei nostri parroci e dei nostri confessori, soprattutto nell’amministrazione del sacramento della penitenza, sembravano coincidere, qualche volta perfino <ad litteram>, con i criteri del secundum oikonomiam presenti nella tradizione cristiana orientale che noi cercavamo di conoscere meglio per entrare nella comprensione più adeguata possibile di un vocabolo come quello di idioritmia che avevamo incontrato spesso nel nostro studio delle tradizioni monastiche orientali

A questo proposito mi permetto, a titolo di esempio, di citare il n.3 della Premessa di Amoris Laetitia in cui papa Francesco, sgombrando il campo da qualsiasi pretesa di definitività, fondata su un pronunciamento del magistero stesso, chiarisce con una certa solennità che:
Naturalmente nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi, ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano”.
Con questo dichiarando il Papa, senza mezzi termini, che non ci si dovrebbe mai illudere di poter conseguire la perfezione in certe interpretazioni delle norme e constatando che “questo succederà fino a quando lo Spirito ci farà giungere alla verità completa (cfr Gv 16,13), quando cioè ci introdurrà perfettamente nel mistero di Cristo e potremo vedere tutto con il suo stesso sguardo[15].
Un qualunque teologo ortodosso orientale condividerebbe senza problemi queste parole del Papa, il cui senso è presentissimo in tutta la grande Tradizione patristica che, a partire da Origene e Gregorio di Nissa, ha sempre sostenuto che non si dà in nessun modo la possibilità di conseguire la perfezione qui su questa terra, dal momento che essa si darà soltanto in cielo.
Papa Francesco, facendo esplicito riferimento alla prassi pastorale è ancora più chiaro quando scrive, richiamandosi alla Relatio finalis n.51 del Sinodo sulla famiglia:
Il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi, e possono esistere fattori che limitano la capacità di decisione. Perciò, mentre va espressa con chiarezza la dottrina, sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione” (n.79).
Un testo che sembra ricalcare, forse senza che il Papa stesso ne avesse avuto consapevolezza, le raccomandazioni che già Giovanni Crisostomo, dava ai suoi tempi - come abbiamo visto - quando scriveva:
“la penitenza non deve essere proporzionata solo alla gravità del peccato, ma deve considerare con attenzione anche la concreta libertà di scegliere (proairesis) di coloro che peccano[16].
Simili coincidenze che, secondo la mentalità umana, potrebbero essere state solo casuali, sono risposta chiarissima ai tanti i quali, ancora in questi mesi, pensano che papa Francesco abbia innovato, in queste cose, nell’insegnamento della Chiesa.

Perché parliamo di idioritmia monastica
Per quanto potesse essere stato sollecitante proseguire con riflessioni generali sulla teologia morale cristiana e relative conseguenze nel servizio pastorale, considero tutto ciò che è stato detto dal Papa nella sua Amoris Laetitia semplice contestualizzazione del tema che ci preme adesso approfondire con riferimento all’idioritmia monastica, che è stato all’origine della nostra decisione, stante la prossimità dei nostri rispettivi Capitoli Generali.
Questo tipo di idioritmia fu la scoperta che feci in Grecia, ormai circa quarant’anni fa, quando visitai per la prima volta quasi tutti i monasteri ortodossi greci dell’isola di Creta.
In quell’occasione mi resi conto che l’idioritmia era stata la risposta dell’Ortodossia greca alla crisi mortale, che aveva affrontato per quattro lunghi secoli quella chiesa, a causa della turcocrazia (occupazione dei Turchi).
Per condurre i miei ascoltatori/lettori nel clima che mi impressionò in quel mio viaggio mi permetterò di riprendere ciò che scrivevo in una mia lettera dalla Grecia all’allora Padre Priore Generale Benedetto Calati e che pubblicai sul Trimestrale di Camaldoli col titolo Lettera dalla Grecia[17].
Sono infatti convinto che a qualcosa di simile dovremmo pensare oggi noi tutti monaci benedettini occidentali, e quindi non soltanto i Camaldolesi. Siamo posti di fronte ad una crisi ben più ampia e micidiale di quella subìta in quei secoli dal monachesimo greco. Cosa che è evidente non soltanto per la progressiva diminuzione numerica dei nostri monaci ma anche per il contesto di oggettivo isolamento della vita monastica dalla società, non diversamente da ciò che avvenne in quei secoli per i monaci della Chiesa greca.
Isolamento non certamente geografico, ma culturale, a tutti i livelli, che impedisce anche oggi ai monaci di respirare con la vita normale della gente comune rischiando di farsi relegare di fatto, sia pure con estremo rispetto e stima, fuori del mondo e della storia, come in una sorta di Monte Athos post moderno o, come spesso si dice, museizzazione.  Chi di noi non ha visto, per esempio, e ammirato, films di enorme successo che hanno permesso di <contemplare>, sì è proprio la parola giusta, l’immobile serietà fuori del tempo e fuori della storia, di cui sono stati fatti oggetto i nostri eremi e le nostre nostre certose?
Salvo non finire, purtroppo, ancora più in basso, e questo all’interno di quegli stessi eremi e di quelle stesse certose, reagendo a questa esclusione oggettiva con il ricorso frequentissimo, di notte e di giorno, ai cosiddetti mass media onnipresenti, surrogati, per tanti monaci ed eremiti, delle relazioni in carne ed ossa con gli altri, dei quali si avverte, in modi più o meno confessabili, la mancanza.
Prendere onestamente atto di tutto questo, magari rivisitando in modo nuovo i tria bona della sapienza idioritmica camaldolese, potrebbe essere una vera e propria sfida per noi in modo da continuare a vivere nella tradizione camaldolese senza lasciarsi imprigionare dalla lettera, ma operando nello spirito di essa con una ermeneutica che permetta di utilizzare in modo postmoderno la nostra ricca tradizione millenaria.
E’ indispensabile però, in tutto questo, avere idee chiare su cosa si intenda per idioritmia. E questo è possibile soltanto se, non fermandosi unicamente al suo significa etimologico o filologico, andiamo umilmente a scuola di chi ha vissuto per secoli di e in questa idioritmia monastica.
Io ho avuto la fortuna di incontrare qualcuno di questi maestri ancora in vita e perciò mi permetterò di far conoscere l’insegnamento ricevuto non per invitare a comportarsi allo stesso modo, ci mancherebbe altro! ma per tentare di coglierne lo spirito come una tenue brace conservata sotto la cenere che può permettere forse di accendere un fuoco nuovo.
Prima, però, di ascoltare la descrizione che fa un monaco idioritmico del suo stile di vita e di quello vissuto dall’insieme della comunità del suo monastero, mi sembra opportuno richiamare alla memoria la classica distinzione del genere dei monaci cristiani attinta probabilmente a san Girolamo che distingueva quattro modi di essere monaci nell’Egitto del suo tempo (passaggio dal IV al V secolo), distinzione che tutti noi monaci e monache abbiamo conosciuto, fin dal nostro noviziato, quando abbiamo letto e studiato il primo capitolo della Regola di San Benedetto.
In quel capitolo i quattro generi di monaci, non vengono semplicemente enumerati, ma viene dato anche un giudizio su ciascuno di essi con l’intento di convincere tutti sulla superiorità morale del <coenobitarum fortissimum genus> cui va la preferenza di Benedetto da Norcia.
Questo <genus> è quello descritto per primo e caratterizzato con queste parole in latino: monasteriale militans sub regula vel abbate (RB, I,1).
Gli altri <genera> sono descritti confrontandoli col primo. Si può cogliere, per esempio, una certa simpatia nel secondo modo di essere monaco identificato col genus anachoritarum, id est heremitarum supponendo che questi eremiti o anacoreti siano stati vagliati dalla monasterii probatione diuturna in modo che bene extructi fraterna ex acie ad singularem pugnam heremi, securi iam sine consolatione alterius, sola manu vel brachio contra vitia carnis vel cogitationum, Deo auxiliante, pugnare sufficiunt (RB I, 5).
Non si coglie invece la stessa simpatia nella descrizione dei due altri modi di vivere la vita monastica.
Il genus sabaitarum è accompagnato subito dal giudizio di deterrimum dandone la motivazione: nulla regula adprobati, experientia magistra…adhuc operibus servantes saeculo fidem … mentiri Deo per tonsuram noscuntur… singuli sine pastore…pro lege eis est desideriorum voluntas, cum quidquid putaverint vel elegerint, hoc dicunt sanctum, et quod noluerint, hoc putant non licere (RB I, 6-9).
E il genus quod nominatur girovagum viene descritto come composto da monaci per omnia deteriores  sarabaitis, perché semper vagi et numquam stabiles et propriis voluntatibus et guilae inlecebris servientes (RB I, 10-11).
Se, partendo dal testo scritto della Regola di Benedetto, si vanno ad osservare altri modi di essere monaci in Occidente, prima e dopo San Benedetto da Norcia, si constata però che non tutte le forme monastiche coincidono con quella dell’abate di Montecassino.
Potrei riferirmi ad altri ambienti, primo fra tutti quelli che hanno avuto come punto di riferimento Martino di Tours e Giovanni Cassiano oppure quello che aveva dato origine alla cosiddetta Regula Magistri certamente conosciuta da Benedetto da Norcia, ma preferisco ricordare soltanto due modi di essere monaci come quello originato da Gregorio Magno, e conosciuto come monachesimo anglo germanico, e quello riformato da Benedetto d’Aniano voluto dai Carolingi per unificare un mondo monastico così pluralistico, in quel IX secolo, da permettere l’osservanza di diverse regole – mi sembra di aver letto che potevano arrivare fino a una ventina - all’interno dello stesso monastero.
Di questi tanti modi di essere monaci mi piace richiamare l’attenzione su quello originato dall’invio dei monaci gregoriani nella terra degli Angli, perché più vicino, mi sembra, a quello che sarà poi ereditato da Bruno di Querfurt dopo la proposta di Ottone III al Maestro Romualdo.
Il quale ultimo deve aver riflettuto moltissimo sulle qualità che avrebbero dovuto avere proprio quegli eremiti o anacoreti dei quali parlava la regola di Benedetto che vedeva esposti inevitabilmente a diventare sarabaiti o girovaghi.
Romualdo, che detestava anche lui i sarabaiti e i girovaghi descritti dalla Regola, non arrivava però al punto da non percepire in quei monaci dei valori autentici che si potevano legittimamente ritenere, apportando ovviamente delle correzioni ritenute necessarie. Ed è proprio in questo modo di reagire di Romualdo al testo della regola di Benedetto che mi sembra di intravedere uno <spiritus> che potrebbe avvicinarlo molto, come presto vedremo, a ciò che ho intravisto io in Grecia osservando l’idioritmia dei monaci ortodossi oggi.
Sappiamo in ogni caso che Romualdo non restò, per esempio, a lungo nel monastero cluniacense di sant’Apollinare di Ravenna, e siamo intorno alla metà del ‘900, ma tentò di agganciarsi alla tradizione eremitica antica rivisitata in una regola essenziale come quella del ieiunandi, silendi et in cella permanendi, correggendola con un richiamo all’obbedienza ad un Abate, che a Benedetto da Norcia sembrava così determinante, per l’equilibrio di ogni tipo di vita monastica, per non finire appunto in quel sarabaitismo o girovaghismo, da lui tanto detestato. Elemento  che fu determinante per l’insegnamento di Romualdo e che portò a definire heremitae rationales i suoi discepoli.
Da qui la scoperta della positività di un’apertura della vita cenobitica a quella eremitica, compiuta tenendo conto delle raccomandazioni presenti già nella regola di Benedetto da Norcia, e dell’apertura della vita eremitica alla vita missionaria sintetizzata in ciò che abbiamo già chiamato tria bona.
Le forme di vita monastica proposte dalla tradizione camaldolese, una volta spogliate delle loro superfluità di un monachesimo divenuto aulico, potevano essere arricchite così di un modo nuovo di vivere un valore preziosissimo antico, come quello della xeniteia (stranierità) legata al richiamo del deserto, con l’attesa, tutt’altro che improbabile, di concludersi con una delle due forme di martirio, anch’esse conosciute nell’antichità, evidenziate sia dal martyrium amoris, con la reclusione, sia dal martyrium sanguinis, con l’impegno all’evangelizzazione dei pagani. E questo supponendo un’attenzione tutta particolare alla crescita di maturità spirituale di ogni singolo monaco, in modo tale che la struttura esterna della vita monastica intrapresa fosse trasparente riflesso della maturità interiore del cuore, come recitano le nostra Costituzioni Camaldolesi successive al Concilio Vaticano II.
Arrivo ad ipotizzare, ma questo lo lascio confermare o meno dai nostri storici specializzati, che la fioritura dei camaldolesi nei primi quattro secoli del secondo Millennio cristiano potrebbe essere stata prodotta proprio dalla particolarissima idioritmia, articolata in modi abbastanza diversi tra loro, da RomualdoPier Damiani, Bruno di Querfurt e dal Beato Rodolfo di Camaldoli. Così come mi permetto di ipotizzare, allo stesso modo,  che proprio la loro crisi, che comportò la  dimenticanza del valore di quell’ <e pluribus unum>, che aveva costituito l’identità camaldolese nel primo mezzo millennio della loro storia, possa essere stata all’origine di una sopravvivenza poco propositiva, se non sul piano della cultura mondana, del carisma camaldolese nei secoli successivi arrivati fino a noi.
Da qui la mia ipotesi, che chiarifico adesso, a partire dalla mia esperienza di tanti anni fa in Grecia.
L’idioritmia in un monastero ortodosso oggi
In una visita che feci, nella primavera del 1971, al monastero di Gonià nell’isola di Creta l’egumeno padre Partenios mi spiegava:
“L’idioritmia è un accomodamento secundum oeconomian (kat’oikonomian) della vita cenobitica. Essa consiste essenzialmente in una certa attenuazione della regola del vivere comune.
Il monaco che entra in un monastero idioritmico si sottomette all’obbedienza verso l’egumeno (superiore/abate) solo per quelle cose o usanze che sono previste dalla tradizione (una tradizione più spesso orale che scritta). Per tutto il resto ha una indipendenza abbastanza considerevole.
La vita comune del monaco idioritmico si riduce sostanzialmente a due elementi: l’abitazione di una cella nel recinto del monastero in cui dovrà comunque ritrovarsi di notte con assoluta assenza della donna nella sua vita; la presenza alla preghiera liturgica comunitaria.
Tutto il resto il monaco lo decide da sé, aiutato dal consiglio e dalla discrezione del padre spirituale.
Le necessità economiche, in particolare, le assolve completamente da solo.
Una volta entrato a far parte di un monastero il monaco idioritmico riceve dal monastero stesso un campo o una vigna da coltivare. Col lavoro delle sue mani dovrà mangiare, vestirsi, comprare il necessario per il lavoro stesso come sarebbero: strumenti, concimi, macchine etc.
Nel monastero idioritmico non esiste economo. Sia la compra che la vendita dei prodotti e delle cose necessarie vengono fatte individualmente dall’interessato secondo il proprio criterio personale. Ed è il monaco stesso che va al mercato per le sue faccende.
Il monaco idioritmico dispone liberamente del frutto del proprio lavoro. Può mettere da parte qualcosa, pensando ad eventuali malattie o alla vecchiaia, oppure può dar via tutto il superfluo in elemosina vivendo alla giornata.
Ognuno si regola secondo la propria sensibilità cercando di seguire le direttive del padre spirituale col quale si confronta ritmicamente, ma il padre spirituale non coincide sempre con l’egumeno (superiore/abate) e molto spesso si tratta di un anziano non appartenente allo stesso monastero.
Se, per qualche imprevisto, il monaco idioritmico si trova in gravi necessità finanziarie subentra l’aiuto del monastero o, meglio, della cosiddetta <mensa> dell’egumeno al quale fanno capo anche tutte le altre necessità del monastero.
L’egumeno (superiore/abate) è responsabile dei beni del monastero ed esercita una certa autorità secondo la tradizione del monastero stesso. Può chiedere ai monaci di fare qualche giornata di lavoro insieme per l’interesse dell’intera comunità; regola l’ordinamento della preghiera comunitaria; è il depositario dei <permessi> di assenza dal monastero. In tutto però si deve regolare secondo la tradizione. Abita normalmente nel locale più accogliente del monastero chiamato egumenìo (superiorato).
Alla mensa dell’egumeno, cioè a dire al monastero, ritornano le vigne o i campi o i risparmi dei monaci deceduti.
L’idioritmia non è la medesima ovunque.
Ciascun monastero idioritimico ha la sua tradizione e cioè il suo modo proprio di vivere l’idioritmia. Normalmente, per esempio, il monaco idioritmico decide da sé cosa mangiare e cucina da solo, ma nei monasteri che si avvicinano un po’ più alla vita cenobitica è possibile che esista la <tavola comune>. In quest’ultimo caso è l’egumeno (superiore/abate) che pensa a procurare tutto, vale a dire: cibo cucina etc.
La <tavola comune> è considerata il primo passo verso la restaurazione, possibile sempre ma non imposta mai dall’alto, della vita cenobitica.
I giovani – eravamo agli inizi degli anni ’70 in Grecia – sono in genere molto favorevoli ad un ritorno alla vita cenobitica strettamente detta, che veniva considerata più autenticamente monastica e più vicina alla tradizione degli antichi padri del monachesimo, ma i più avanzati negli anni sono molto più restìi  lasciare cadere le loro usanze idioritmiche elottano per mantenerle in vita” [18].
Questa forma di vita monastica, che pure a me è sembrata portatrice di una ricchezza teologica straordinaria, ha subìto, a mio parere, una critica eccessiva, e qualche volta persino feroce, da parte dei cosiddetti Ordines Strictae/Strictioris Observantiae che hanno dettato legge in Occidente, e hanno potuto purtroppo influenzare pesantemente perfino le nostre chiese e comunità sorelle orientali, durante tutto il secondo millennio della storia cristiana.
Né questa critica dei severi asceti occidentali si è limitata soltanto alle forme idioritmiche di vita monastica considerate superficialmente come troppo permissive e rilassate, perché, grazie al primato della lex sulla oikonomia, essa ha finito per influenzare in Occidente, anche lo stile della vita di fede dei battezzati, a proposito dei quali si faceva di tutto per privilegiare l’uniformità sui diritti della diversità, con imposizioni estremamente pesanti delle quali noi occidentali paghiamo ancora le conseguenze in tanti campi.
Nonostante tutto nacquero invece, nel nostro Oriente cristiano così martoriato dalla storia degli ultimi cinquecento anni, forme diverse di ciò che adesso possiamo anche chiamare esercizio della misericordia modellata sulla perfezione/misericordia del Padre, che fa splendere il suo sole sui buoni e sui cattivi e manda la sua pioggia sui giusti e sui peccatori.
La triade di impegni (più tardi chiamati voti) vissuti come Povertà, Castità, Obbedienza che in Occidente caratterizzarono la vita consacrata, in Oriente proseguì del tutto naturalmente ad essere applicata non soltanto ai monaci ma anche a tutti i discepoli di Cristo nel rispetto gioioso dell’idioritmia propria a ciascuno dei credenti, fossero essi stabiliti nel mondo o fuori del mondo inteso come società degli uomini.
E infatti essa può esprimersi serenamente: sia nelle sacre nozze, accompagnate o meno dalla hierosyne; sia nelle diverse forme di vita del monaco che abbiamo appena elencato; sia nella pratica pastorale relativa alla cosiddetta Benedizione delle Seconde Nozze. Tutte scelte di vita e di stili pastorali che gli Occidentali fanno enorme fatica ad accettare e che, forse, proprio un dialogo più approfondito con le Chiese sorelle dell’Oriente  potrebbe far capire alle Chiese occidentali, perché trionfi sempre per tutti e su tutto la misericordia del Padre manifestata nel Mistero di Cristo presente nella Chiesa.
Penso però che potrebbe essere utile, prima di concludere questa mia comunicazione, ricordare intanto almeno alcune cose essenziali che potremmo tener presenti, dopo le indicazioni appena riportate. E lo faccio con l’aiuto, ancora una volta, dell’amico Basilio Petrà, il quale, trascrivendo una citazione del teologo ortodosso contemporaneo G.I. Mantzaridis, scrive, per esempio, queste righe:
 “L’esatta osservanza dei canoni della Chiesa spesso non serve, in alcune circostanze, a conseguire lo scopo dell’osservanza stessa che è sempre la salvezza dei fedeli. I canoni, con il loro carattere generale, non possono avvicinare e regolare difficoltà o particolarità personali che esigono di essere affrontate in modo particolare (noi diremmo personalizzato). In questi casi la Chiesa, senza abolire o rovesciare i suoi canoni, <fa economia>, cioè dispone e regola le cose con spirito di indulgenza (epieikeia) e di condiscendenza (sygkatabasis) sempre mirando al suo permanente scopo, la salvezza degli uomini[19].
E completo ciò che penso di aver capito da Mantzaridis con ciò che leggo anche in un altro teologo ortodosso contemporaneo che è Ieronimos Kotsonis, il quale scrive a sua volta:
Quando per necessità o per il maggior bene di alcuni o della Chiesa intera, con competenza e a certe condizioni, si permette una deroga all’akribeia, temporaneamente o in modo permanente, purché la pietà e la purezza del dogma rimangano contemporaneamente inalterate, si ha oikonomia”[20] e cioè con ciò che, con riferimento esplicito alla cosiddetta osservanza monastica, io chiamo idioritmia.
Ancora una volta, tutti potrebbero confrontare queste indicazioni con ciò che si legge nell’Amoris Laetitia di papa Francesco ed avere così ulteriore conferma di una dottrina comune che non può in nessun caso essere ricondotta unicamente, per esempio in campo matrimoniale, alla questione: <divorzio sì/divorzio no>, col sottointeso che si debba contrapporre la prassi delle Chiese orientali alla prassi sostenuta da sempre dalla Chiesa di Roma, perché, nonostante le rigidità giuridiche dei canoni che restano, tutto sommato, comuni, tra le due chiese sorelle, intendono perseguire comunque, in obbedienza al Vangelo, lo stesso obiettivo della salvezza dell’uomo.
Idioritmia monastica ed esperienza ecclesiale
Per concludere propongo qui di seguito alcune riflessioni per invitare tutti a proseguire un discorso che, con questo mio intervento, ho inteso solo inaugurare.
-         Dal punto di vista della chiamata personale sappiamo che Gesù stesso aveva precisato non soltanto come i suoi discepoli avrebbero potuto realizzare personalmente la loro particolare chiamata alla misericordia, ma anche ciò che si potevano attendere da Lui, con parole come queste: “Voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono…siederete anche voi su dodici troni…e chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre o figli o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna” (Mt 19, 27-29).
Scegliere di seguire Lui comporta senza dubbio dunque una immedesimazione tale con Lui da condividerne sia la sua particolare umiliazione sia la sua altrettanto particolare esaltazione.
-         Il NT offre però anche altre indicazioni relative alla realizzazione della misericordia con riferimento, questa volta, al senso comunitario o, come diremmo oggi, ecclesiale, e lo fa proponendo alcune sintesi descrittive della vita della comunità apostolica che possiamo rintracciare in ciò che scrivono gli Atti degli Apostoli quando osservano che: “La moltitudine di credentiavevano un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune…poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno” (Atti 4, 32- 35).
Io penso che sia presente già qui, sia pure in nuce, quella stessa idioritmia, intesa come attenzione premurosa (sygkatabasis) alle sensibilità e possibilità concrete di ciascuno dei componenti la comunità, in modo che non vi sia alcuna pretesa di assorbimento o di appiattimento di chicchessia, ma appunto solo delicata attenzione alle identità di ciascuno dei componenti la comunità.
-         La comunità apostolica descritta da Luca costituiva forse quell’unico corpo di cui era stato reso consapevole lo stesso Paolo nella sua cavalcata verso Damasco quando udì quelle misteriosissime parole: <Io sono quel Gesù che tu perseguiti>, identificandosi perciò col corpo della comunità che lo avrebbe portato a scrivere quei due bellissimi capitoli 11 e 12 della Prima Lettera ai Corinti.
E dunque proprio l’idioritmia, intesa come attenzione delicata alle necessità di ciascuno, fino al punto da essere indicata come imitazione della accondiscendenza (sygktabasis) appresa dall’imitazione del Padre, potrebbe essere stata all’origine di tutto ciò che, nelle nostre Chiese d’Oriente, viene indicato nell’espressione kat’oikonomian che è come dire rispetto della idiotitas o identità delle singole persone.
-         Riferendosi alla riflessione teologia sul mistero della Trinità i teologi avrebbero parlato più tardi in Occidente di oikonomia ad intra e, se riferita al mistero le cui tracce era possibile intravedere nella historia salutis, di oikonomia ad extra. Un modo molto interessante, tutto sommato, di riferirsi al mysterium Ecclesiae che renderebbe in qualche modo visibile nella storia il dispiegarsi della Misericordia di Dio garantita in essa soprattutto dalla presenza permanente di quel mysterium amoris che Gesù stesso aveva comandato di rendere continuamente presente in quel <Fate questo in memoria di me>.
-         La Divina Liturgia è l’ostensione massima della sygktabasis Theou che siamo stati chiamati ad annunziare al mondo sino alla fine dei tempi nelle parole dello zikkaron cristiano, quando proclamiamo: “Questo è il mio corpo spezzato per voi, questo è il mio sangue versato per voi”.
Non si troverebbe forse nulla di più appropriato del gesto eucaristico, e dunque della Divina Liturgia, per rendere presente, e annunziare continuamente al mondo, il Dio della Misericordia.
-         Gli Occidentali hanno da sempre privilegiato una articolazione della misericordia divina in Opere di Misericordia corporale e Opere di Misericordia spirituale. Una distinzione scolastica che possiamo accogliere con gratitudine come caratteristica del modo occidentale di parlare seguendo l’assioma del frequenter distingue. Ma questo non fino al punto da non tener conto, a nostra volta, che la vera distinzione andrebbe compiuta non soltanto nell’individuare ciò che appartiene al corporale e ciò che attiene allo spirituale, ma anche, e direi soprattutto, ciò che appartiene alla persona. Quest’ultima infatti andrebbe rispettata ed esaudita anch’essa come un tutt’uno che va oltre la differenza tra corpo e spirito nella insondabile e ineffabile realtà, appunto del mistero, che è sempre proprio di ogni identità personale.
I Padri della Chiesa ritornavano spessissimo su temi come questi, o analoghi a questi.
-         Noi monaci conosciamo bene, grazie all’insegnamento, per esempio, di Giovanni Cassiamo, il senso di vocaboli come eleemosyne o eleison nella intensissima preghiera dei monaci antichi, definita spesso monologhistòs, (cioè composta da una parola sola) in cui la  misericordia - (proveniente da termini ebraici come hesed o racham, integrata dal riferimento al greco oiktìroo/oiktirmoon trodotto in latino con misereor/misericors). P
Penso che proprio questa tradizione conoscitiva e sperimentale insieme, potrebbe essere riconosciuta come punto di partenza non soltanto della frequenza quotidiana dell’invocazione liturgica Kyrie eleison,  onnipresente nelle nostre celebrazioni liturgiche, e della conosciutissima preghiera del cuore: Kyrie Iesou Christè eleison me ton amartolòn, in cui è possibile riconoscere uno degli aspetti più alti in assoluto della pietas/eusebeia cristiana, di oriente e di occidente, arrivata fino ai nostri giorni, ma anche della scelta quotidiana di avere il cuore infinitamente accogliente, settanta volte sette, verso la fragilità di ogni singola persona umana che ammette con sincera compunzione del cuore il suo peccato e ne chiede perdono.
guidoinnocenzogargano@gmail.com






[1] Giovanni Damasceno, Expositio accurata Fidei Orthodoxae, liber primus, caput XIV, PG tomus XCIV, col. 860BC. 
[2] Vedi E.G.Farrugia (a cura di), Dizionario Enciclopedico dell’Oriente Cristiano, PIO, Roma 2000, 539-541.
[3] Basilio Petrà, L’etica ortodossa. Storia, fonti, identità, Cittadella Editrice, Assisi 2010.
[4] Idem, ivi, p.196.
[5] PG 77,320.
[6] Il Sacerdozio 2,4, PG 48, 635.
[7]Guida, PG 89, 77; cfr Petrà, o. c. p.197.
[8] Epistola 32, PG 111, 213; cfr Petrà ivi.
[9] Ivi, nota 121.
[10] Basilio Petrà, o.c., p.198.
[11] Petrà, o.c., p.199.
[12] Ivi.
[13] Cfr ivi.
[14] Cfr Thomas Matus, Alle origini di Camaldoli. San Romualdo e i cinque fratelli, Traduzione commento e note a cura di Thomas Matus, Edizioni Camaldoli 1996, p.34.

[15] Amoris Laetitia, n.3.
[16] Giovanni Crisostomo, Il Sacerdozio 2,4, PG 48, 635.
[17] Vita Monastica XXV, n.106, Luglio settembre 1971, pp.156-181.
[18] O.c., pp.157-159.
[19] Cfr Basilio Petrà, o.c., p.195.
[20] O.c., p. 194.

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